L’analisi di Giuseppe Pisauro sulla pubblica amministrazione italiana, pubblicata sulla Rivista Italiana di Public Management, non è solo una critica puntuale, ma la diagnosi di un paziente cronico a cui, per decenni, è stata somministrata una cura inefficace, se non dannosa. Partendo dal suo esame critico, è fondamentale chiederci non solo cosa non ha funzionato, ma quale strada intraprendere per costruire una PA all’altezza delle sfide del nostro tempo.
La diagnosi di un fallimento: l’approccio “taglia unica”
Pisauro mette a nudo con precisione chirurgica il peccato originale delle riforme italiane, ispirate al New Public Management: l’applicazione meccanica e uniforme di un modello unico a un universo intrinsecamente eterogeneo. L’idea di trasformare ogni dirigente in un “manager” e ogni ufficio in un’azienda ha generato profonde distorsioni.
I punti chiave della sua critica sono impietosi:
- Il paradosso della “burocrazia senza carriere”: In nome di una flessibilità mal interpretata, si sono destrutturati i percorsi di carriera, eliminando quello che in un rapporto di lungo periodo è l’incentivo principale: la crescita professionale prevedibile e basata sul merito. Il risultato? Un’ondata di promozioni generalizzate e riqualificazioni di massa, dettate più da esigenze contrattuali che da reali necessità organizzative, che hanno appiattito le competenze anziché valorizzarle.
- La formalità dei risultati: L’enfasi sui risultati si è tradotta in un’esplosione di adempimenti cartacei. La riforma del bilancio è rimasta un esercizio formale, e gli indicatori di performance si sono rivelati spesso autoreferenziali e non verificabili dall’esterno. Invece di una cultura del risultato, si è rafforzata una “cultura dell’adempimento”, dove la responsabilità del dirigente scivola dal piano sostanziale a quello formale.
- L’erosione delle competenze tecniche: La spinta verso una figura unica di dirigente-manager, unita a una politica retributiva che ha premiato quasi esclusivamente i ruoli dirigenziali, ha reso la PA un luogo poco attraente per gli specialisti. Questo ha indebolito le tecno-strutture, proprio nel momento storico in cui c’è più bisogno di competenze elevate per governare transizioni complesse, dallo “stato regolatore” allo “stato innovatore”.
Una nuova visione: dal management al governo del valore pubblico
Come possiamo, dunque, andare oltre questa diagnosi? La lezione di Pisauro, e prima di lui di studiosi come Paul H. Appleby, ci insegna che la pubblica amministrazione non è un’azienda. Il suo scopo non è il profitto, ma la creazione di Valore Pubblico. È questo il paradigma su cui fondare una nuova stagione di riforme, basata su tre pilastri.
1. Il pluralismo dei modelli organizzativi
Il fallimento del modello unico impone di adottare un approccio sartoriale. Non tutte le amministrazioni sono uguali. Come suggerito dalla teoria dei costi di transazione citata da Pisauro, la burocrazia di stampo weberiano, basata su procedure rigorose e carriere definite, rimane il modello più efficiente per funzioni che richiedono imparzialità e precisione (es. un’agenzia fiscale, un ufficio di statistica). Altre aree, come quelle che si occupano di innovazione o di servizi alla persona, potrebbero invece beneficiare di modelli più agili, basati su team di progetto e reti inter-istituzionali.
La proposta: Mappare le funzioni della PA e associare a ciascuna il modello organizzativo più adatto, superando l’idea monolitica di amministrazione.
2. Ricostruire carriere e attrarre talenti
Bisogna invertire la tendenza alla de-specializzazione. Una PA moderna ha bisogno di carriere distinte e attraenti per profili diversi:
- Specialisti e tecnici: Percorsi che premino l’approfondimento delle competenze (giuristi, ingegneri, data scientist, esperti di valutazione delle policy) con progressioni anche non manageriali.
- Manager pubblici: Figure con reali competenze gestionali, formate per guidare processi complessi e valutate su risultati misurabili e verificabili.
- Funzionari generalisti: L’ossatura dell’amministrazione, con percorsi di carriera chiari che premino l’esperienza e l’affidabilità.
La proposta: Lanciare un piano strategico di reclutamento e formazione che non si limiti a tappare i buchi, ma che miri a inserire le competenze necessarie per il futuro (digitali, quantitative, relazionali) e a ricostruire percorsi di carriera motivanti.
3. Una nuova cultura della valutazione
Il controllo interno, se lasciato a sé stesso, diventa autoreferenziale. La valutazione deve cambiare radicalmente pelle. Non più solo un controllo formale ex-post, ma uno strumento di apprendimento continuo. Ciò significa:
- Valutazione degli outcome: Misurare non solo quante pratiche sono state evase (output), ma qual’è stato l’impatto reale sulla vita dei cittadini e delle imprese (outcome).
- Trasparenza e contro-poteri: Istituire organismi di valutazione realmente indipendenti, sul modello dei General Accountability Office citati da Pisauro, e aprire i dati sulla performance al controllo pubblico e accademico.
- Valutazione partecipata: Coinvolgere cittadini e stakeholder nella definizione degli obiettivi e nella misurazione dei risultati, per garantire che l’azione amministrativa sia allineata con i bisogni della collettività.
Abbracciare la complessità
L’errore fondamentale delle riforme passate è stato quello di semplificare eccessivamente, ignorando la natura intrinsecamente complessa, politica e valoriale dell’agire pubblico. La via d’uscita non è un’altra riforma “chiavi in mano”, ma un processo paziente di ricostruzione istituzionale che, come suggerisce l’analisi di Pisauro, rispetti la specificità di ogni pezzo dell’amministrazione. È tempo di abbandonare l’illusione manageriale per abbracciare la sfida del governo del valore pubblico.